Quando parliamo di disabilità, in particolare quelle intellettive, spesso ci viene naturale domandarci se una persona, nel momento in cui vive una condizione di diversità che porta con sé diverse difficoltà funzionali, abbia comunque la possibilità di avere una vita piena e soddisfacente.
Prima di tutto, cosa intendiamo quando parliamo di disabilità?
Durante il ventesimo secolo la disabilità è stata spesso presentata primariamente in termini di dipendenza, carenza o insufficienza. Negli ultimi anni però, perlomeno a livello teorico, stiamo assistendo ad un mutamento nella concettualizzazione, con un incremento dell’attenzione alla persona nel suo complesso e quindi non più solo come un “contenitore” della patologia.
Questo cambiamento nella teorizzazione purtroppo non è ancora pienamente abbracciato nei contesti pratici, dove risulta ancora difficile sganciarsi dall’idea secondo cui la disabilità è un grado più o meno ampio di deviazione dal comportamento “normalmente atteso” (Schianchi, 2013).
Il concetto di disabilità è spesso associato al concetto di “diverso”. Dobbiamo però fare attenzione a non intendere quest’ultimo come un sinonimo di “sbagliato”, in quanto rischieremmo di cadere nella stigmatizzazione.
Se partiamo dall’assunto per cui nessuna persona è uguale ad un’altra, è fondamentale sottolineare come sia la cultura a definire di volta in volta le categorie di persone da etichettare come diverse -in base a caratteristiche biologiche, comportamentali o sociali- e di attribuire loro determinati stereotipi.
Nel caso della disabilità, le ricerche ci dicono che gli stereotipi portano ad atteggiamenti benevolenti di pena e di compassione, con un conseguente rischio di infantilizzazione e svalutazione.
Le Nazioni Unite, nella Convenzione sui diritti delle persone con Disabilità (2006), riconoscono che: “la disabilità è un concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella società su una base di parità con gli altri”. Quest’ultima definizione amplia il focus dalla singola persona disabile al contesto in cui è accolta, evidenziando la natura ambientale e sociale della disabilità. Sottintende inoltre il dovere, partendo dalla diversità della persona, di implementare tutte le condizioni necessarie affinché essa sia al pari delle altre.
Parità, intesa qui come equità e non come uguaglianza, che implica anche la medesima possibilità di essere pienamente soddisfattǝ della propria vita e di essere felice.
In questa prospettiva quindi, la disabilità non è più un sinonimo di malattia e neppure sua stretta conseguenza, ma è piuttosto una condizione peculiare di funzionamento su cui agiscono fattori di carattere biologico, psicologico e sociale (Delle Fave, 2007).
Nonostante questi importanti cambiamenti teorici sul concetto di disabilità, uniti al fatto che oggi molti studi ci dimostrano che è possibile vivere una vita di qualità con percorsi di crescita positivi, rimane comunque diffusa l’opinione, spesso condivisa anche dagli operatori sanitari, che essere disabili rappresenti “una tragedia senza fine” (Weinberg, 1988).
Perché facciamo fatica ad immaginarci una persona disabile felice?
Lo scollamento tra le ricerche e la percezione delle persone sulla disabilità può essere compreso considerando il focus con cui ci si approccia al tema. Una persona “abile” tenderà a valutare la condizione di una persona disabile sulla base della salute oggettiva di quest’ultima, ponendo quindi l’attenzione sulle “mancanze”. Le ricerche ci dicono però che la soddisfazione di vita è influenzata ben più dalla percezione di salute che non dalla salute oggettiva in sé (Antonelli, 2007).
Analizzando le relazioni tra diversi aspetti di salute e benessere è infatti emerso che, nonostante il 96% delle persone considerate soffra almeno di una malattia cronica o disabilità, il 63% si dichiara soddisfattǝ della propria vita, riportando di provare più emozioni positive che negative. Questo dato si allinea con altri studi su individui affetti da gravi patologie, il cui livello di soddisfazione per la vita differisce di poco da quello di persone sane.
Le persone con disabilità congenita o precoce, tra l’altro, percepiscono la propria disabilità come una condizione abituale e sono quindi in grado di vivere esperienze ottimali, purché abbiano opportunità di svolgere attività che richiedono impegno e mobilitazione delle proprie capacità.
É l’apatia infatti a incidere negativamente sull’individuo, sia per quanto riguarda la salute mentale che la crescita personale. Questo dato si riflette anche nei casi di disabilità grave in cui il benessere soggettivo potrebbe essere negativamente influenzato a causa dell’impossibilità di raggiungere i propri obiettivi o a causa della limitazione dei contatti interpersonali.
Quando parliamo disabilità dovremmo sempre ricordare che il continuum relativo al benessere e alla soddisfazione di vita è separato rispetto al continuum di malessere e malattia. Le condizioni di malattia quindi non implicano necessariamente l’assenza della possibilità di vivere una vita piena e soddisfacente.
La psicologia positiva offre un contributo in questa direzione ponendo l’attenzione sull’importanza di definire e capitalizzare le risorse e le capacità delle persone con disabilità intellettiva, e avendo come obiettivo la promozione dell’inclusione sociale, della partecipazione e di una buona qualità della vita.
E noi cosa possiamo fare?
Le persone con disabilità possono farci paura o metterci a disagio perché le percepiamo come diverse e “mancanti” di qualcosa, e questo ci porta a provare compassione o pena. In questo modo stiamo dicendo loro: “tu hai qualcosa che non va, e di questo mi dispiace”. La disabilità diventa quindi la loro unica caratteristica, rilevante più di qualsiasi altra cosa, e smettiamo di vedere una persona nella sua complessità e nelle sue sfaccettature. Questo ci può portare a comportamenti discriminatori che, nel caso della disabilità, possono essere eccesso di protezione, costante sostituzione nelle attività più semplici, atteggiamento di infantilizzazione e così via.
Ricordiamoci sempre che la nostra percezione del mondo è soggettiva e che le altre persone potrebbero vivere una realtà molto diversa da noi. Questo implica che dobbiamo fare un piccolo sforzo per cercare di metterci nei panni dell’altrǝ, con l’obiettivo di avvicinarci alla sua visione del mondo. Potremmo scoprire così che la persona di fronte a noi vive la propria disabilità in modo completamente diverso da come immaginiamo e che quelli che dal nostro punto di vista sono limiti enormi, per lei sono la normalità della vita quotidiana.
Bibliografia
- Antonelli, E. (2007). Il benessere soggettivo nella prospettiva psicosociale: una rassegna. Giornale italiano di psicologia. Vol. 1, 57-116.
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- Delle Fave, A., Bassi, M. (2007). Psicologia e salute. L’esperienza di utenti e operatori. Novara: De Agostani Scuola Spa.
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- Weinberg N. (1988), Another perspective: Attitudes of people with disabilities, in H. E. Yuker (ed.), Attitudes toward persons with disabilities. (pp. 141-153). New York: Springer. 141-153.