L’OROLOGIO BIOLOGICO TICCHETTA ANCORA?

Fin da quando ero piccola, immaginando il mio futuro, pensavo che un giorno sarei stata una mamma. Crescendo ho iniziato a preoccuparmi per qualcosa di inevitabile e terrificante: ​il ​passare ​del ​tempo. ​Quando ​a ​21 ​anni ​ho ​deciso ​di ​cambiare ​università ​uno ​dei ​primi ​pensieri ​è ​stato ​“cavolo, ​ho ​perso ​due ​anni.. ​così ​non ​riuscirò ​a ​laurearmi ​prima ​dei ​26”. ​Il ​retro-pensiero ​era ​uno ​soltanto: ​“devo ​riuscire ​a ​sistemarmi ​e ​a ​fare ​un ​figlio ​entro ​i ​30 ​anni”. ​Non ​mi ​sono ​mai ​particolarmente ​soffermata ​sull’origine ​di ​questa ​paura, ​di ​questa ​pressione ​e ​ansia ​riguardo ​la ​mia ​“data ​di ​scadenza”, ​l’ho ​sempre ​attribuita ​al ​mio ​orologio ​biologico.

Tutt* ​noi ​almeno ​una ​volta ​nella ​vita ​ne ​abbiamo ​sentito ​parlare, ​ma ​l’orologio ​biologico, ​esattamente, ​che ​cos’è?

​Comunemente ​con ​orologio ​biologico ​ci ​si ​riferisce ​al ​fatto ​che ​la ​fertilità ​femminile ​non ​è ​perenne ​e ​che, ​ad ​un ​certo ​punto, ​la ​possibilità ​di ​avere ​un/a ​figlio/a ​si ​riduce ​notevolmente. ​Personalmente ​ho ​sempre ​pensato ​che ​quel ​punto ​fosse ​situato ​attorno ​ai ​30-35 ​anni.

Un ​giorno ​però ​mi ​sono ​imbattuta ​in ​un ​articolo ​del ​Guardian ​in ​cui ​viene ​presentato ​un ​estratto ​del ​libro ​“Labor ​of ​Love: ​the ​invention ​of ​dating” ​di ​Moira ​Weigel.
​Weigel ​analizza ​il ​concetto ​di ​orologio ​biologico ​partendo ​dalla ​sua ​origine, ​decisamente ​più ​recente ​di ​quanto ​mi ​aspettassi. ​Infatti ​questo ​termine ​(originariamente ​usato ​in ​riferimento ​ai ​ritmi ​circadiani ​di ​sonno ​e ​veglia) ​è ​stato ​associato ​al ​tema ​della ​fertilità ​femminile ​solo ​nel ​1978, ​in ​un ​articolo ​del ​Washington ​Post ​scritto ​da ​un ​opinionista, ​Richard ​Cohen.
​La ​nuova ​definizione ​di ​orologio ​biologico ​ha ​preso ​piede ​velocemente ​nell’opinione ​pubblica, ​diventando ​un ​vero ​e ​proprio ​topos ​e ​radicandosi ​nella ​nostra ​cultura.

Ancora ​oggi ​il ​tema ​della ​fertilità ​femminile ​si ​associa ​all’orologio ​biologico ​e ​nasconde ​non ​poche ​insidie, ​talvolta ​sotto ​forma ​di ​vera ​e ​propria ​disinformazione. ​Ad ​esempio ​alcune ​tra ​le ​statistiche ​più ​citate ​sul ​tema ​fertilità ​indicano ​che ​una ​donna ​su ​tre, ​tra ​i ​35 ​e ​i ​39 ​anni, ​non ​è ​in ​grado ​di ​rimanere ​incinta ​dopo ​un ​anno ​di ​tentativi. ​La ​psicologa ​Jean ​M. ​Twenge, ​in ​un ​articolo ​del ​2013, ​evidenzia ​come ​queste ​statistiche ​derivino ​da ​uno ​studio ​del ​2004 ​che ​a ​sua ​volta ​si ​basa ​su ​dati ​riguardanti ​le ​nascite ​in ​Francia ​raccolti ​tra ​il ​1670 ​e ​il ​1830.

​Secondo ​Twenge ​questo ​è ​uno ​dei ​più ​spettacolari ​esempi ​di ​come ​i ​media ​possano ​fallire ​nell’interpretare ​e ​riportare ​correttamente ​i ​dati ​delle ​ricerche ​scientifiche. ​Diversi ​studi ​più ​recenti ​dimostrano ​infatti ​come ​non ​esistano ​importanti ​diminuzioni ​di ​fertilità ​almeno ​prima ​dei ​40 ​anni.

“In ​altre ​parole, ​a ​milioni ​di ​donne ​viene ​detto ​quando ​dovrebbero ​rimanere ​incinta ​basandosi ​su ​statistiche ​di ​un ​periodo ​precedente ​a ​elettricità, ​antibiotici ​e ​trattamenti ​per ​la ​fertilità” ​

Jean M. Twenge

Secondo ​Weigel ​“la ​storia ​dell’orologio ​biologico ​è ​una ​storia ​riguardante ​scienza ​e ​sessismo”, ​è ​infatti ​evidente, ​secondo ​l’autrice, ​come ​le ​assunzioni ​riguardanti ​il ​genere ​possano ​strumentalizzare ​la ​divulgazione ​delle ​ricerche ​scientifiche ​per ​servire ​fini ​sessisti.

La ​mia ​riflessione ​non ​vuole ​mettere ​in ​discussione ​l’incidenza ​dell’età ​sulle ​possibilità ​riproduttive, ​fatto ​reale ​e ​ampiamente ​dimostrato. ​Mi ​sembra ​molto ​interessante ​notare ​però ​che, ​a ​fronte ​di ​un’equa ​incidenza ​di ​infertilità ​ed ​una ​simile ​diminuzione ​di ​fertilità ​in ​relazione ​all’età ​per ​uomini ​e ​donne, ​il ​concetto ​di ​orologio ​biologico ​sia ​stato ​affibbiato ​quasi ​esclusivamente ​a ​noi ​donne ​senza ​prendere ​in ​esame ​la ​condizione ​maschile.

Partendo ​dall’origine ​storica ​di ​questo ​concetto ​possiamo ​ipotizzare ​come ​mai ​tutto ​questo ​sia ​accaduto. ​Nell’articolo ​di ​Cohen ​emerge ​spesso ​un ​tono ​critico ​riguardo ​l’emancipazione ​lavorativa ​femminile. ​In ​effetti ​il ​periodo ​in ​cui ​l’articolo ​di ​Cohen ​è ​scritto, ​e ​questo ​topos ​comincia ​a ​diffondersi, ​è ​proprio ​la ​fine ​degli ​anni ​’70, ​momento ​in ​cui ​la ​presenza ​femminile ​nel ​mercato ​del ​lavoro ​statunitense ​è ​fortemente ​in ​crescita.

L’ingresso ​delle ​donne ​nel ​mondo ​del ​lavoro ​inevitabilmente ​mette ​in ​crisi ​l’ordine ​sociale, ​in ​quanto ​incide ​direttamente ​sulle ​rappresentazioni ​e ​le ​prescrizioni ​di ​genere. ​Le ​donne ​infatti ​si ​dovrebbero ​occupare ​solamente ​della ​vita ​privata, ​della ​casa ​e ​della ​famiglia, ​lasciando ​agli ​uomini ​le ​relazioni ​con ​il ​mondo ​esterno ​e ​il ​compito ​di ​procacciare ​le ​risorse ​per ​il ​sostentamento ​della ​famiglia ​(Rudman ​e ​Glick, ​2010). ​L’orologio ​biologico ​permette ​di ​contrastare ​questa ​crisi ​mettendo ​in ​guardia ​le ​donne ​sul ​fatto ​che ​prima ​o ​poi ​si ​potrebbero ​pentire ​di ​non ​aver ​avuto ​figli, ​sostanzialmente ​esso ​diventa ​un’arma ​per ​contrastare ​gli ​effetti ​dell’emancipazione ​femminile.

Potremmo ​interpretare ​questi ​eventi ​come ​un ​esempio ​di ​backlash ​(Rudman, ​1998), ​ovvero ​una ​forte ​reazione ​della ​società ​ai ​tentativi ​di ​emancipazione ​femminile ​per ​ristabilire ​lo ​status ​quo. ​La ​società ​spinge ​verso ​una ​maggiore ​prescrittività ​del ​ruolo ​tradizionale ​femminile, ​secondo ​cui ​le ​donne ​sono ​fatte ​per ​essere ​madri ​e ​non ​lavoratrici, ​per ​contrastare ​i ​tentativi ​di ​raggiungere ​l’eguaglianza ​di ​genere.

​“Ci ​sono ​cose ​di ​cui ​noi ​uomini ​non ​dovremo ​mai ​preoccuparci. ​Come ​il ​ticchettare ​dell’orologio ​biologico. ​[…] ​Qui ​è ​dove ​finisce ​la ​liberazione ​femminile” ​

Richard Cohen

Cohen ​non ​perde ​occasione ​per ​evidenziare ​il ​fatto ​che ​il ​discorso ​riguardante ​la ​fertilità ​sia ​un ​problema ​esclusivamente ​femminile. ​Sono ​le ​donne ​a ​doversi ​preoccupare ​della ​propria ​fertilità ​e ​a ​dover ​progettare ​la ​propria ​vita, ​privata ​e ​lavorativa, ​in ​base ​alla ​volontà ​di ​diventare ​madri. In ​effetti ​poi, ​una ​volta ​divenute ​madri, ​spetterà ​loro ​tutto ​il ​lavoro ​di ​cura ​(Belotti, ​1973).

A ​mio ​avviso ​pensare ​che ​il ​tema ​della ​genitorialità ​riguardi ​solo ​ed ​esclusivamente ​le ​donne ​e ​non ​sia ​in ​alcun ​modo ​dipendente ​dalla ​volontà ​maschile ​è ​profondamente ​negativo ​sia ​per ​le ​donne ​che ​per ​gli ​uomini. ​Questo ​tipo ​di ​narrative ​continua ​a ​rinforzare ​gli ​stereotipi ​alla ​base ​del ​sessismo ​e ​delle ​differenze ​di ​genere. ​Le ​donne ​sono ​“communal” ​ovvero ​hanno ​l’obiettivo ​di ​entrare ​in ​connessione ​con ​gli ​altri, ​quindi ​spetta ​loro ​il ​compito ​di ​occuparsi ​dei ​figli; ​gli ​uomini ​sono ​“agentic” ​ovvero ​sono ​focalizzati ​al ​raggiungimento ​dei ​proprio ​obiettivi ​e ​alla ​soddisfazione ​dei ​propri ​bisogni, ​quindi ​si ​occupano ​di ​lavorare ​e ​procacciare ​le ​risorse ​(Bakan, ​1966; ​Fiske, ​Cuddy ​e ​Glick, ​2007).

Gli ​stereotipi ​e ​le ​prescrizioni ​sociali ​riducono ​le ​possibilità ​di ​immaginarsi ​e ​di ​diventare ​ciò ​che ​desidera, ​perseguendo ​i ​propri ​obiettivi. ​A ​noi ​donne ​non ​è ​concesso ​di ​essere ​competenti, ​competitive ​e ​assertive. ​Agli ​uomini ​non ​è ​concesso ​di ​essere ​affettuosi, ​sensibili ​e ​non ​ambiziosi.

Continueremo ​a ​guardare ​con ​sospetto ​un ​ragazzo ​che ​afferma ​la ​propria ​volontà ​di ​lasciare ​il ​lavoro ​per ​rimanere ​a ​casa ​ad ​occuparsi ​dei ​propri ​bambini ​e ​continueremo ​a ​giudicare ​male ​una ​ragazza ​che ​decide ​di ​ricorrere ​alla ​sterilizzazione ​perché ​ama ​il ​proprio ​lavoro ​ed ​è ​certa ​che ​di ​bambini ​non ​ne ​vorrà ​mai. ​Sicuramente ​dobbiamo ​considerare ​il ​fatto ​che ​l’articolo ​di ​Cohen ​sia ​del ​’78 ​e ​che ​ne ​è ​passata ​di ​acqua ​sotto ​i ​ponti. ​Oggi ​molti ​uomini ​fanno ​i ​papà, ​molte ​donne ​lavorano, ​apparentemente ​si ​potrebbe ​pensare ​che ​i ​discorsi ​riguardanti ​le ​differenze ​di ​genere ​appartengano ​al ​passato…

Eppure ​una ​delle ​domande ​che ​mi ​vengono ​fatte ​più ​spesso ​rimane ​“allora ​a ​quando ​il ​primo ​bambino? ​Ormai ​è ​ora!”
​Inutile ​dire ​che ​al ​mio ​compagno ​viene ​sempre ​chiesto ​“come ​va ​il ​tuo ​lavoro? ​Prospettive ​di ​carriera?”.

​Bibliografia
  • ​Bakan, ​D. ​(1966). ​The ​duality ​of ​human ​existence: ​an ​assay ​on ​psychology ​and ​religion. ​Rand ​MacNally
  • ​Belotti, ​E. ​G. ​(1973). ​Dalla ​parte ​delle ​bambine. ​Feltrinelli
  • ​Cohen, ​R. ​(1978). ​The ​Clock ​Is ​Ticking ​For ​the ​Career ​Woman. ​The ​Washington ​Post https://www.washingtonpost.com/archive/local/1978/03/16/the-clock-is-ticking-for-the-career-woman/bd566aa8-fd7d-43da-9be9-ad025759d0a4/?utm_term=.54e1781a98d7
  • ​Fiske, ​S. ​T., ​Cuddy, ​A. ​J., ​& ​Glick, ​P. ​(2007). ​Universal ​dimensions ​of ​social ​cognition: ​Warmth ​and ​competence. ​Trends ​in ​cognitive ​sciences, ​Vol. ​11, ​No. ​2, ​77-83
  • ​Momigliano, ​A. ​(2016). ​L’amore ​ai ​tempi ​dell’orologio ​biologico. ​Rivista ​Studio h​ ttp://www.rivistastudio.com/standard/orologio-biologico/
  • ​Rudman, ​L. ​A. ​(1998). ​Self-promotion ​as ​a ​risk ​factor ​for ​women: ​The ​costs ​and ​benefits ​of ​couter-stereotypical ​impression ​management. ​Journal ​of ​Personality and ​Social ​Psychology, ​74, ​629–645
  • ​Rudman, ​L. ​A., ​& ​Glick, ​P. ​(2010). ​The ​social ​psychology ​of ​gender: ​How ​power ​and ​intimacy ​shape ​gender ​relations. ​Guilford ​Press
  • ​Twenge, ​J. ​M. ​(2013). ​How ​long ​can ​you ​wait ​to ​have ​a ​baby? ​The ​Atlantic. h​ ttps://www.theatlantic.com/magazine/archive/2013/07/how-long-can-you-wait-to-have-a-baby/309374/
  • ​Weigel, ​M. ​(2016). ​The ​foul ​reign ​of ​the ​biological ​clock. ​The ​Guardian. h​ ttps://www.theguardian.com/society/2016/may/10/foul-reign-of-the-biological-clock

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