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Sono una Psicologa Clinica.

Il mio lavoro consiste nel promuovere il Benessere Psicologico attraverso la riduzione dei pregiudizi e la promozione delle diversità.

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“Narcisista”: istruzioni per l’uso

Da qualche tempo il termine “narcisismo” è sulla bocca di tuttǝ. Ne sentiamo parlare in particolare in relazione a partner o ex-partner, solitamente uomini, le cui modalità relazionali vengono definite «tossiche», «manipolatorie», e così via.

Purtroppo, anche l3 professionist3 talvolta cadono nella tentazione della “condivisione facile” e propongono contenuti impropri sul tema. 

Basta una veloce ricerca del termine “narcisista” su un qualsiasi social network per essere sommers3 di articoli come «liberati del narcisista in 5 passi», «scopri se lui è narcisista», e così via.

Se state cercando qualcosa di simile nell’articolo che state per leggere, siete nel posto sbagliato. 

Ritengo che questo tipo di approccio sia problematico sotto svariati punti di vista, partendo dalla riduzione e dall’accezione totalmente negativa del termine “narcisismo”, fino allo stigma nei confronti di persone con disturbo narcisistico di personalità.

Il mio obiettivo è di fare chiarezza su questo tema, sfatando qualche mito ed evidenziando la complessità della questione.

Partiamo dalla definizione   

Per narcisismo si intende la capacità di mantenere un’immagine di sé relativamente positiva attraverso una varietà di processi di regolazione del sé, degli affetti e dell’ambiente. Il narcisismo è connesso ai bisogni individuali di convalida e affermazione, nonché alla motivazione a cercare esperienze di miglioramento personale da parte dell’ambiente sociale.

Partendo da questa definizione possiamo intuire che il narcisismo non sia negativo a priori. La maggior parte de3  teoric3 supporta questa visione, suggerendo che il narcisismo possa avere espressioni sia normali sia patologiche. Tali espressioni riflettono l’organizzazione della personalità, i bisogni psicologici e i meccanismi regolatori e danno origine alle differenze individuali nella gestione dei bisogni di auto-miglioramento e convalida di sé.

Le normali espressioni di narcisismo possono quindi contribuire all’autostima e al benessere, aumentando il senso di azione personale dell’individuo. 

Il narcisismo è però anche associato alla tendenza ad avallare illusioni positive sul sé e a minimizzare tutte le informazioni che risultano essere incoerenti con tali illusioni. Persone con alti livelli di narcisismo solitamente appaiono ambizios3, soddisfatt3 e relativamente di successo, anche se, talvolta, queste caratteristiche hanno un impatto negativo sulle relazioni interpersonali.

L’influenza della cultura e della società 

Secondo molt3 autor3, oggi viviamo in una cultura tendenzialmente narcisista. Questo rende problematico comprendere cosa possa effettivamente indicare un disturbo di personalità e cosa, invece, semplicemente, un adattamento culturale.

La nostra cultura infatti rinforza costantemente l’importanza di sé e del proprio successo. Siamo spesso immers3 in una narrativa secondo cui ci meritamo di diventare “qualcunǝ” senza troppo sforzo. Siamo inoltre abituat3 a ricevere, soprattutto attraverso i social, gratificazioni immediate e costanti. 

La differenza tra una sana stima di sé e una gonfiata artificialmente diventa quindi spesso ambigua rendendo difficile determinare se una persona abbia effettivamente dei tratti narcisisti disfunzionali o meno.

Dal narcisismo adattivo al narcisismo patologico

Tuttǝ noi abbiamo normali bisogni e motivazioni narcisistiche. Una certa quantità di egocentrismo e amor proprio non solo è normale, ma anche essenziale al benessere psicologico. 

Tuttavia, le persone patologicamente narcisiste appaiono particolarmente turbatǝ di fronte a delusioni e minacce al mantenimento positivo della propria immagine. 

Proprio perché nessunǝ è perfettǝ, e il mondo fornisce costantemente ostacoli e sfide ai risultati desiderati, nel momento in cui la persona affetta da narcisismo patologico dovrà far fronte a delusioni e minacce a un’immagine positiva di sé, mostrerà significativi deficit regolatori e strategie disadattive. In altre parole, le persone con disturbo narcisistico di personalità o con tratti narcisisti patologici hanno grandi difficoltà nel gestire qualsiasi ostacolo al proprio successo o qualsiasi negazione della propria importanza.

La linea tra sano e patologico è difficile da tracciare perché certi comportamenti possono risultare realisticamente patologici in una persona ma essere una semplice manifestazione di buona autostima in un’altra. 

Inoltre, dobbiamo fare attenzione al rischio di etichettare le altre persone come narcisiste sulla base di nostri sentimenti di invidia del loro successo o di insicurezza personale.

In generale spetta a3 professionist3 della salute (psicolog3, psicoterapeut3 o psichiatr3) il compito di diagnosticare componenti, tratti o personalità narcisistiche. Non ci sono altri modi, nessun test o articolo online può sostituire la competenza delǝ professionista e l’utilizzo di strumenti diagnostici validati.

Il disturbo narcisistico di personalità 

La patologia narcisistica ha spesso un impatto negativo sulla vita della persona, soprattutto nella sfera relazionale. Le caratteristiche tipiche della persona con disturbo narcisistico possono però essere molto varie.

Nella rappresentazione della cultura popolare le persone narcisistiche sono descritte come manipolatorie, arroganti, aggressive, concentrate su di sé, alla costante ricerca di attenzioni e fama. Questo tipo di narcisismo viene definito grandioso.

In realtà esistono quadri di disturbo narcisistico molto diversi, con caratteristiche che potrebbero apparire opposte all’immagine culturalmente condivisa di “persona narcisista”. 

Si parla, ad esempio, di narcisista fragile per indicare una persona fortemente sensibile alle reazioni dell3 altr3, inibita, schiva. Questo tipo tende a dirigere il focus lontano da sé, ascolta le altre persone con molta attenzione per trovare segnali di mancanza di rispetto o critica. Si sente feritǝ con molta facilità e prova spesso sentimenti di vergogna e umiliazione.

In generale, molt3 espert3 clinic3 contemporane3 concordano sul fatto che le persone con disturbo narcisistico di personalità vivano dei momenti di grandiosità che oscillano o che si verificano in concomitanza con momenti di forte vulnerabilità e di disregolazione affettiva. La persona con disturbo narcisistico di personalità, se non è in grado di mantenere o avere conferma della propria grandiosità, risulterà sempre più vulnerabile alla vergogna, al panico, all’impotenza o alla depressione.

Le differenze di genere nel disturbo narcisistico di personalità 

La sintomatologia della personalità narcisistica, in particolare se pensiamo al tipo di rappresentazione comunemente condivisa di narcisismo grandioso, assomiglia molto allo stereotipo del ruolo sessuale maschile degli uomini presente nella nostra cultura. La rappresentazione del “maschile” comprende infatti espressioni fisiche di rabbia, un forte bisogno di potere e uno stile di leadership autoritario.

Per comprendere a fondo le differenze di genere associate al narcisismo sono necessarie alcune premesse.

In primo luogo, le persone tendono a interiorizzare i ruoli di genere, ovvero l’insieme dei modelli e delle aspettative di comportamento associati al proprio genere, come “standard di sé” rispetto ai quali regolano il proprio comportamento.

Inoltre, la maggior parte degli stereotipi di genere può essere categorizzata secondo le seguenti due dimensioni: Agency, che include competitività, dominio, assertività e necessità di risultati o obiettivi di alto rendimento; e Communality, che include cordialità, cura, tenerezza e altruismo. 

Questa breve descrizione evidenzia come le caratteristiche communal siano coerenti con i ruoli sociali connessi alle attività riproduttive femminili, mentre le caratteristiche agentic siano coerenti con i ruoli sociali maschili, legati alle attività di procacciamento delle risorse economiche.

Infine, dobbiamo ricordarci che le persone vengono penalizzate e/o punite quando deviano dalle aspettative di genere e questo avrà come conseguenza una forte pressione sociale che spingerà tutt3 ad aderire al proprio ruolo di genere.

Se proviamo ad applicare queste premesse ai tratti tipici del disturbo narcisistico grandioso, quali gli alti livelli di agenticità, inclusi competitività, dominio, assertività e bisogno di successo, ci appare subito evidente come mai si tenda ad associare questo tipo di personalità soprattutto agli uomini.

Allo stesso modo, le caratteristiche communal, incentrate sul mantenimento e il rafforzamento delle relazioni sociali e tipicamente associate al “femminile”, tendono ad essere poco associate con la rappresentazione culturalmente condivisa di narcisismo. 

Se una donna mostra caratteristiche narcisistiche grandiose, dovrà affrontare sanzioni sociali più dure, in quanto i comportamenti dominanti sono tipicamente attribuiti a ruoli maschili. Questa condizione sanzionatoria rende l’adozione del narcisismo grandioso meno attuabile per le donne che per gli uomini.

In sintesi, le manifestazioni culturalmente condivise di narcisismo (corrispondenti al narcisismo grandioso) tenderanno ad essere molto meno riconosciute e accettate nelle donne -che attuano comportamenti che violano gli stereotipi del ruolo di genere- piuttosto che negli uomini.

Questa analisi ci porta a concludere che i comportamenti “tipicamente maschili” rischiano di essere interpretati come narcisistici. 

Se un uomo è arrogante, aggressivo, interessato principalmente al raggiungimento dei propri obiettivi e poco propenso a comportamenti di cura, ha tratti narcisistici patologici o sta semplicemente aderendo al proprio ruolo di genere?

È importante evitare di cadere nell’errore di etichettare una persona come “narcisista”, in quanto ciò contribuisce ad una reiterazione del forte stigma nei confronti delle persone che soffrono di disturbi psicologici.

Lo stigma associato alle malattie mentali

Da un punto di vista sociologico e antropologico, la stigmatizzazione è il fenomeno sociale in cui si attribuiscono caratteristiche negative a una o più persone che, di conseguenza, verranno considerate devianti.

In una prospettiva socio-cognitiva, lo stigma include componenti cognitive, affettive e comportamentali.

La componente cognitiva è costituita dagli stereotipi, ovvero l’insieme di pensieri e aspettative che generano una credenza – ampiamente semplificata e condivisa – associata ad una specifica categoria sociale. 

La componente affettiva è costituita dai pregiudizi, ovvero l’insieme degli atteggiamenti – avversi o ostili – verso una persona che appartiene a un gruppo, semplicemente per via della sua appartenenza a quel gruppo.

La componente comportamentale è costituita dalla discriminazione, ovvero l’insieme dei comportamenti discriminatori messi in atto a seguito dell’influenza di stereotipi e pregiudizi nei confronti di una persona o di un gruppo sociale.

La stigmatizzazione delle persone con malattie mentali sembra essere ampiamente condivisa dalla nostra società. Alcuni studi suggeriscono che molt3 cittadin3 e molt3 professionist3 della salute mentale, nella maggior parte delle nazioni occidentali, condividono atteggiamenti stigmatizzanti nei confronti di questo particolare gruppo sociale.

Uno studio recente evidenzia come la comprensione da parte della società sulle cause delle malattie mentali si sia ampliata negli ultimi anni. Tuttavia, nonostante questo incremento di consapevolezza, gli atteggiamenti nei confronti delle persone con malattie mentali sono diventati più stigmatizzanti, soprattutto in termini di percezione di pericolosità. 

Le ricerche hanno delineato le caratteristiche dello stigma e i modi in cui questo impatta sulla sfera lavorativa, sull’indipendenza e, più in generale, sulle opportunità di vita delle persone che soffrono di malattie mentali

L’esposizione a narrative stigmatizzanti nei confronti di persone con malattie mentali potrebbe portare queste ultime a ritenere validi gli atteggiamenti negativi nei propri confronti. Di conseguenza l’interiorizzazione di queste credenze potrebbe portare a sviluppare una bassa autostima, depressione o mancanza di motivazione.

In altre parole, le persone con malattie mentali, che vivono in una società che approva ampiamente idee stigmatizzanti, faranno proprie queste idee e arrivano a credere di essere meno apprezzate a causa del loro disturbo.

La situazione è ulteriormente peggiorata dall’aspetto strutturale dello stigma, ovvero quando le convinzioni e gli atteggiamenti stigmatizzanti finiscono per essere supportati, promossi o reiterati anche da parte di istituzioni e politiche sociali.

In generale possiamo identificare tre categorie di stereotipi tipicamente associate alle malattie mentali e ai disturbi psichiatrici: incompetenza, pericolosità e responsabilità. 

Le persone con malattie mentali sono spesso descritte come incapaci di prendersi cura di sé e di provvedere alle proprie necessità. Questa credenza può portare a comportamenti coercitivi come il ricovero forzato, la tutela o la limitazione dell’indipendenza della vita personale. 

I media spesso esasperano il legame tra malattia mentale e violenza. Questo tipo di narrative perpetua lo stereotipo di pericolosità. Queste convinzioni portano ad avere paura delle persone affette da malattie mentali, alimentando nella società la comparsa di comportamenti discriminatori come l’evitamento o addirittura la segregazione.

Infine, secondo lo stereotipo della responsabilità, le persone con malattie mentali sono considerate responsabili della propria condizione. In altre parole, le persone credono che chi sviluppa un disturbo psichiatrico abbia fatto scelte che hanno portato ai propri sintomi o che non abbia compiuto sforzi di recupero sufficienti. Quanto spesso si sente dire ad una persona che dichiara di essere depressa che se si impegnerà e sarà più positiva starà subito meglio? 

Sebbene gli atteggiamenti stigmatizzanti non siano limitati alla malattia mentale, la società in generale sembra disapprovare le persone con condizioni psichiatriche molto più delle persone con disabilità fisiche. Questo perché, a differenza delle persone con disabilità fisiche, le persone con malattie psichiatriche sono percepite come in controllo della loro condizione e quindi responsabili di causarla.

Le evidenze scientifiche suggeriscono inoltre che i disturbi di personalità, in particolare, siano ancora più stigmatizzati rispetto ad altre diagnosi psichiatriche. 

La convinzione diffusa secondo cui le persone con disturbi di personalità dovrebbero essere in grado di controllare il proprio comportamento, di fatto fa sì che i sintomi siano visti come manipolazioni o rifiuti di aiuto. Gli individui con disturbo di personalità verranno quindi considerati problematici e con comportamenti inadeguati piuttosto che effettivamente malati. Questo porterà le altre persone a reagire in modo meno comprensivo, ritentendo meno necessario l’aiuto professionale rispetto ad altre situazioni psichiatriche.

Per concludere

Il disturbo narcisistico di personalità porta con sé sia il peso dello stigma legato ai disturbi di personalità, sia le narrative estremamente negative legate al concetto di narcisismo.

Ogni volta in cui utilizziamo in modo dispregiativo termini come narcisista, di fatto stiamo reiterando narrative fortemente stigmatizzanti e creando un ambiente fortemente sfavorevole e discriminante per tutte quelle che persone che hanno avuto diagnosi di disturbo narcisistico.

Le narrative comuni sulle “persone narcisiste” legittimano gli stereotipi di pericolosità e di responsabilità, dipingendo queste persone come volutamente manipolatorie e pericolose ed escludendo tutti gli aspetti di sofferenza e fragilità associati a questo tipo di disturbo.

Spesso queste etichette vengono utilizzate in modo eccessivo nei confronti di individui (qui il maschile è voluto) sulla base di caratteristiche legate più ai ruoli tradizionali di genere e al sessismo, che non ad eventuali quadri di personalità patologici.

Come abbiamo visto, la sfera relazionale per le persone con disturbo narcisistico o tratti narcisistici patologici è spesso fortemente compromessa. Questo implica che avere una relazione con queste persone è effettivamente molto difficile e può rivelarsi doloroso o addirittura pericoloso. Questa riflessione non vuole sminuire o ignorare gli effetti traumatici derivanti da relazioni disfunzionali con persone con disturbo narcisistico o tratti narcisistici. Se si pensa di essere in una relazione disfunzionale, di avere accanto una persona che genera disagio o sofferenza, il mio consiglio è di cercare supporto e aiuto, anche da unǝ professionista se necessario.

Ritengo essenziale difendere la dignità e il diritto di ciascuna persona di essere tutelata e accolta nella propria specifica difficoltà, contribuendo allo stesso tempo alla promozione di una cultura del rispetto e al contrasto di discriminazioni e disinformazione.  

La consapevolezza è il primo passo. Ciascunǝ di noi ha il potere, con le proprie parole e le proprie azioni, di promuovere un mondo inclusivo e meno discriminante possibile.

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E se la diversità corrisponde a una disabilità?

Quando parliamo di disabilità, in particolare quelle intellettive, spesso ci viene naturale domandarci se una persona, nel momento in cui vive una condizione di diversità che porta con sé diverse difficoltà funzionali, abbia comunque la possibilità di avere una vita piena e soddisfacente. 

Prima di tutto, cosa intendiamo quando parliamo di disabilità?

Durante il ventesimo secolo la disabilità è stata spesso presentata primariamente in termini di dipendenza, carenza o insufficienza. Negli ultimi anni però, perlomeno a livello teorico, stiamo assistendo ad un mutamento nella concettualizzazione, con un incremento dell’attenzione alla persona nel suo complesso e quindi non più solo come un “contenitore” della patologia. 

Questo cambiamento nella teorizzazione purtroppo non è ancora pienamente abbracciato nei contesti pratici, dove risulta ancora difficile sganciarsi dall’idea secondo cui la disabilità è un grado più o meno ampio di deviazione dal comportamento “normalmente atteso” (Schianchi, 2013). 

Il concetto di disabilità è spesso associato al concetto di “diverso”. Dobbiamo però fare attenzione a non intendere quest’ultimo come un sinonimo di “sbagliato”, in quanto rischieremmo di cadere nella stigmatizzazione.

Se partiamo dall’assunto per cui nessuna persona è uguale ad un’altra, è fondamentale sottolineare come sia la cultura a definire di volta in volta le categorie di persone da etichettare come diverse -in base a caratteristiche biologiche, comportamentali o sociali- e di attribuire loro determinati stereotipi. 

Nel caso della disabilità, le ricerche ci dicono che gli stereotipi portano ad atteggiamenti benevolenti di pena e di compassione, con un conseguente rischio di infantilizzazione e svalutazione. 

Le Nazioni Unite, nella Convenzione sui diritti delle persone con Disabilità (2006), riconoscono che: “la disabilità è un concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella società su una base di parità con gli altri”. Quest’ultima definizione amplia il focus dalla singola persona disabile al contesto in cui è accolta, evidenziando la natura ambientale e sociale della disabilità. Sottintende inoltre il dovere, partendo dalla diversità della persona, di implementare tutte le condizioni necessarie affinché essa sia al pari delle altre. 

Parità, intesa qui come equità e non come uguaglianza, che implica anche la medesima possibilità di essere pienamente soddisfattǝ della propria vita e di essere felice. 

In questa prospettiva quindi, la disabilità non è più un sinonimo di malattia e neppure sua stretta conseguenza, ma è piuttosto una condizione peculiare di funzionamento su cui agiscono fattori di carattere biologico, psicologico e sociale (Delle Fave, 2007). 

Nonostante questi importanti cambiamenti teorici sul concetto di disabilità, uniti al fatto che oggi molti studi ci dimostrano che è possibile vivere una vita di qualità con percorsi di crescita positivi, rimane comunque diffusa l’opinione, spesso condivisa anche dagli operatori sanitari, che essere disabili rappresenti “una tragedia senza fine” (Weinberg, 1988). 

Perché facciamo fatica ad immaginarci una persona disabile felice?

Lo scollamento tra le ricerche e la percezione delle persone sulla disabilità può essere compreso considerando il focus con cui ci si approccia al tema. Una persona “abile” tenderà a valutare la condizione di una persona disabile sulla base della salute oggettiva di quest’ultima, ponendo quindi l’attenzione sulle “mancanze”. Le ricerche ci dicono però che la soddisfazione di vita è influenzata ben più dalla percezione di salute che non dalla salute oggettiva in sé (Antonelli, 2007). 

Analizzando le relazioni tra diversi aspetti di salute e benessere è infatti emerso che, nonostante il 96% delle persone considerate soffra almeno di una malattia cronica o disabilità, il 63% si dichiara soddisfattǝ della propria vita, riportando di provare più emozioni positive che negative. Questo dato si allinea con altri studi su individui affetti da gravi patologie, il cui livello di soddisfazione per la vita differisce di poco da quello di persone sane.

Le persone con disabilità congenita o precoce, tra l’altro, percepiscono la propria disabilità come una condizione abituale e sono quindi in grado di vivere esperienze ottimali, purché abbiano opportunità di svolgere attività che richiedono impegno e mobilitazione delle proprie capacità. 

É l’apatia infatti a incidere negativamente sull’individuo, sia per quanto riguarda la salute mentale che la crescita personale. Questo dato si riflette anche nei casi di disabilità grave in cui il benessere soggettivo potrebbe essere negativamente influenzato a causa dell’impossibilità di raggiungere i propri obiettivi o a causa della limitazione dei contatti interpersonali. 

Quando parliamo disabilità dovremmo sempre ricordare che il continuum relativo al benessere e alla soddisfazione di vita è separato rispetto al continuum di malessere e malattia. Le condizioni di malattia quindi non implicano necessariamente l’assenza della possibilità di vivere una vita piena e soddisfacente. 

La psicologia positiva offre un contributo in questa direzione ponendo l’attenzione sull’importanza di definire e capitalizzare le risorse e le capacità delle persone con disabilità intellettiva, e avendo come obiettivo la promozione dell’inclusione sociale, della partecipazione e di una buona qualità della vita. 

E noi cosa possiamo fare?

Le persone con disabilità possono farci paura o metterci a disagio perché le percepiamo come diverse e “mancanti” di qualcosa, e questo ci porta a provare compassione o pena.  In questo modo stiamo dicendo loro:  “tu hai qualcosa che non va, e di questo mi dispiace”. La disabilità diventa quindi la loro unica caratteristica, rilevante più di qualsiasi altra cosa, e smettiamo di vedere una persona nella sua complessità e nelle sue sfaccettature. Questo ci può portare a comportamenti discriminatori che, nel caso della disabilità, possono essere eccesso di protezione, costante sostituzione nelle attività più semplici, atteggiamento di infantilizzazione e così via.

Ricordiamoci sempre che la nostra percezione del mondo è soggettiva e che le altre persone potrebbero vivere una realtà molto diversa da noi. Questo implica che dobbiamo fare un piccolo sforzo per cercare di metterci nei panni dell’altrǝ, con l’obiettivo di avvicinarci alla sua visione del mondo. Potremmo scoprire così che la persona di fronte a noi vive la propria disabilità in modo completamente diverso da come immaginiamo e che quelli che dal nostro punto di vista sono limiti enormi, per lei sono la normalità della vita quotidiana. 

Bibliografia
  • Antonelli, E. (2007). Il benessere soggettivo nella prospettiva psicosociale: una rassegna. Giornale italiano di psicologia. Vol. 1, 57-116.
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  • Delle Fave, A., & Massimini, F. (2003). Making disability into a resource. Psychologist, Vol. 16, No.3, 133-134.
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